Come abitare oggi il mondo? Per Miguel Benasayag è la questione centrale nell’attività clinica psichiatrica e psicoterapica della sua “psicoterapia dei legami”, detta anche “situazionale”.
Non sembri strano, ai clinici che si occupano di lenirne la sofferenza psichica, valutare come il paziente stia nel mondo - spiega il filosofo e psicoanalista. Da Freud in avanti è aperto, e conflittuale, il dialogo della psicoanalisi e della psicoterapia con la storia, l’antropologia, la sociologia. L’ipotesi del fondatore della psicoanalisi apparve allora sovversiva – ricorda Benasayag – assegnando all’essere umano un inconscio con una vita propria. Il sogno della ragione veniva infranto dalle pulsioni e dai desideri cui tutti noi siamo assoggettati. Ne risultava scardinato il progetto della modernità del protagonista cartesiano, guidato dalla ragione, totalizzante ed egemonica sul mondo. La data simbolica del 1900, con il Congresso dei matematici di Parigi, chiudeva un’epoca dominata dall’analiticamente prevedibile. L’aleatorietà iniziava ad affacciarsi, l’attacco alla base epistemiologica della modernità era iniziato. Accadeva anche nelle arti visive, dove la rottura dell’archetipo estetico della bellezza era sospinta dalle avanguardie: dadaismo, cubismo, surrealismo.
Oggi, a centoventi anni di distanza dalla crisi che dall’inizio del Novecento si è estesa all’intero secolo, siamo immersi in un'ancor più devastante crisi, continuazione della precedente. Ormai improponibile è il dispositivo cartesiano che al suo centro poneva un uomo maschio, occidentale, nel fiore degli anni, il cui oggetto era quella natura di cui si professava ago e possessore. L’opposizione tra il soggetto uomo e l’oggetto mondo, mito fondante della modernità occidentale sconosciuto ad altre culture, è ormai improponibile. Non giudica quel modello Benasayag: ha inventato il mondo, colonizzandolo con le sue tecniche, producendo il meglio e il peggio. Ma oggi è all’origine della crisi della cultura occidentale: una catastrofe, nel senso di rottura e cambiamento irreversibile. Devastanti gli effetti dell’antropocentrismo: nell’epoca moderna l’attività umana ha modificato persino la sostanza geologica del pianeta e di tutti gli esseri viventi – argomenta Benasayag. E chiama “ritorno dall’esilio” il rientro dell’uomo nel mondo: allora capirà di non essere mai partito e si renderà conto di quanto ha fatto contro la natura e se stesso. Non più cartesiano, l’uomo occidentale prima soggetto della natura dovrà imparare a condividere l’ambiente con altri soggetti, che tali diventeranno anche di diritto. Oggi sappiamo come ogni uomo sia un ecosistema, legato all’insieme degli ecosistemi: l’opposto dell’individualità dell’essere autonomo, ideale della modernità.
Citando il filosofo argentino Rodolfo Kusch, Benasayag entra nei dettagli dei due diversi modi di pensare e abitare il mondo.
Il mondo dell’”essere” occidentale, sospinto dalla mancanza che alimenta perennemente il desiderio e l’insoddisfazione conseguente, è intrappolato in un concetto di tempo solo presente, mai passato né futuro. L’habitat è la grande città, dove rifugiarsi per non subire la natura, protetti dal suo sistema di norme. Vi si vivono esistenze sempre in progetto ma incompiute, mentre la promessa del futuro si è trasformata in minaccia.
Alternativo all’Occidente è il mondo dello “stare”: completo in sé, non fatalista bensì caratterizzato da un diverso modo di assumere le sfide, che rispetti i cicli naturali, biologici, culturali di un universo in cui tutto è incluso in un insieme, noi compresi. Dove la pienezza della vita presente non contempla un futuro immaginato come promessa né come minaccia.
Le opposte figure della verticale e della spirale visualizzano i due diversi modi di abitare il mondo.
Alla luce di tali considerazioni filosofiche, Benasayag afferma l’impossibilità odierna di fare clinica ignorando tale cambiamento epocale. Il mondo non rimane più fuori dal consultorio ma vi entra insieme al paziente: starà al clinico capire come vi si manifesta. Stante tale premessa la clinica del legame dovrà trovare un equilibrio perché bisognerà lenire la sofferenza del paziente senza dissertare di filosofia o antropologia. Se il nostro futuro appare ormai come una minaccia – e la pandemia da Covid lo ha rivelato in tutta la sua drammaticità – il clinico deve assumere la consapevolezza di essere accomunato al paziente dall’impossibilità di prevedere, senza potergli offrire garanzie con il proprio agire.
Oltre alla sua lunga esperienza clinica, Benasayag che è anche ricercatore di interfacce tra mondo digitale e biologico, rileva come nell’esperienza angosciante e depressiva che è diventato il vivere, attanagliati dal senso di impotenza, si inserisca l’incontro dell’umanità ferita con le macchine logiche. La ragione fallita delega sempre più alla macchina che, non avendo un corpo deperibile né pulsioni incontrollate, funzionerà sempre se riparata. Ma l’assimilazione ormai in atto tra il nostro cervello e il dispositivo tecnologico porta ad interpretare anche le nostre sofferenze psicologiche quali problemi di circuiti da riparare per tornare a funzionare. Anche la sofferenza sarà considerata un malfunzionamento asemantico, non un modo di essere del paziente nel mondo. In tale prospettiva si inserisce la clinica del legame, che deve resistere alla cultura dominante dell’essere funzionante per dedicarsi invece all’essere umano. Certo il paziente può chiedere di funzionare ma, secondo Benasayag, il terapeuta deve operare una clinica del funzionamento (inevitabile e supportata da farmaci e tecniche) in relazione all’esistenza, ovvero senza tagliare il legame con se stesso di un essere umano che abita il mondo, con le sue complessità e contraddizioni. Accettando che una falla che ci costituisce non sia un difetto ma la nostra singolarità. Nella clinica situazionale o dei legami il terapeuta esplora insieme al paziente cosa significhi convivere con la sofferenza, contando di trovare in sé quell’intimità che permetterà di focalizzarsi sull’universo interiore e non su una ristretta combinazione di funzionamenti. Da parte sua il clinico dovrà assumere il coraggio di non sapere: nucleo condiviso, specchio dell’epoca contemporanea, intorno al quale si creeranno legami. Né egli dovrà imporre al paziente le proprie certezze terapeutiche, piuttosto aiutarlo nel suo cammino esistenziale, verso un’incertezza sopportabile per lui, per la sua famiglia e per il suo ambito.