Alla guerra che non si ferma nel cuore dell’Europa, Synapsis dedica un intero ciclo di lezioni in collaborazione con la rivista “doppiozero” e i suoi intellettuali. Com’è nostra vocazione, spaziamo in diversi campi del sapere anche nell’affrontare il concetto di “guerra”, associandolo a diverse discipline che ne aiutino la comprensione, se non l’accettazione.
Ha una prospettiva filosofica la dissertazione del filosofo e psicoanalista Romano Madera, che nel chiedersi se la guerra sia inevitabile, la spiega attraverso la teoria della “pseudo-speciazione”, introdotta dallo psicologo e psicoanalista Erik Erikson, poco utilizzata nelle scienze umane, molto nella psicologia sociale e nell’etologia umana. Secondo la quale, a differenza del mondo animale, la specie umana non riconosce il nemico come tale, mettendo in atto dinamiche che, a partire dall’antichità, sacrificano vittime quali capri espiatori. Più strettamente allegata all’attualità del conflitto in Ucraina è la coda dell’intervento di Madera, che risale alle radici storiche e culturali, necessariamente da conoscere, di un evento annunciato.
Con taglio storico, documentato sulle fonti, la psicoterapeuta Nicole Janigro ricostruisce i legami con la Grande guerra di Sigmund Freud e dell’allievo Gustav Jung. Come rivelano scritti e lettere, il padre della psicoanalisi se ne trovò coinvolto inizialmente per la leva dei figli maschi, fino a che le nevrosi traumatiche arriveranno a influenzare il suo pensiero, formando nuovi materiali alla psicoanalisi. Mentre Jung, allo scoppio della guerra ufficiale medico ma da tempo perseguitato da incubi e visioni di morti e sangue un’Europa devastata, attribuì lo scoppio del conflitto allo sfogo della psiche collettiva, arrivando ad assegnare un carattere psichico, costituito da miti e archetipi, a popoli e nazioni.
È ancora Nicole Janigro, nella sua seconda lezione, ad argomentare attraverso il pensiero di filosofi, scienziati, letterati la tensione verso la pace non ancora soddisfatta. Dopo il Novecento secolo più ogni altro afflitto da guerre, la cultura della pace è un articolo (28) della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, nonché educazione in alcuni Stati. Se Eric Fromm da filosofo si interroga sulle ragioni del male chiamando in causa l’anatomia della distruttività umana, l’etologo Irënaus Eibl-Eibesfeldt afferma l’urgenza di sviluppare una nuova cultura della pace superando ogni pregiudizio antropocentrico, mentre René Girard pone la rinuncia alla violenza quale conditio sine qua non per la sopravvivenza dell’umanità.
Con visione poetica che si apre alle arti tutte, il critico letterario e storico della letteratura Andrea Cortellessa ripercorre gli scritti memorabili folgoranti di poeti e letterati italiani tra le due guerre. Da Federico De Roberto che nella novella La paura oppone una natura snaturata ai parafernalia bellici, a Eugenio Montale che alla guerra dedicò solo una poesia di Ossi di seppia, folgorante per il verso “le notti chiare erano tutte un’alba”. Dagli interventisti Gabriele D’Annunzio e Ardengo Soffici al disilluso Carlo Emilio Gadda e al dolente Giuseppe Ungaretti, dalla memorialistica riscoperta dei soldati illetterati, fino alla violenza espressionista, autocensurata di Clemente Rebora: il sommo poeta della grande guerra.
Strettamente legata alla guerra, la scienza è responsabile delle più micidiali invenzioni belliche, non di rado trasformate in risorse per l’umanità. Pino Donghi, comunicatore scientifico, ripercorre la storia del legame tra guerra e scienza, ponendo l’accento sugli episodi più sconosciuti e curiosi, in relazione alle arti, allo spettacolo, a cinema. Dalle due guerre mondiali segnate dall’uso dell’atomica, attraverso le guerre post-coloniali del secondo Novecento, fino ai conflitti attuali dove anche la chimica e la biologia entrano in gioco, l’excursus bellico coincide, sorprendentemente, con la storia della scienza e dei più grandi scienziati.
Il ciclo comprende un’incursione anche nel cinema e nei media audiovisivi che con la guerra hanno sempre avuto uno stretto legame. Come argomenta in una documentata e trasversale lezione Giuseppe Previtali, le invenzioni cinematografiche e belliche sono così legate da avere radici linguistiche comuni (si pensi al verbo inglese to shoot: sparare e fotografare). Dalla prima guerra mondiale le immagini prodotte hanno valenza politica, così che scegliere di diffonderle o censurarle è volontà dei governi: dal fungo atomico alle ombre di Hiroshima, dal “falling man” dell’11 settembre ai crudi rituali jihadisti. Con un punto di vista che è ormai quello della macchina e non più del combattente, le immagini dei conflitti attuali, compreso quello in Ucraina, hanno l’accurata confezione della propaganda.