Innumerevoli i testi di psicologia, i romanzi, i film centrati sulla figura della madre, mutata nel suo ruolo nel corso del Novecento, con un’accelerazione decisiva negli ultimi anni. È proprio sul protagonismo della madre, ancor prima del suo rapporto con il figlio, che intende focalizzarsi questo percorso.
Partiamo dal saggio di Massimo Recalcati Le mani della madre, in cui l’autore affronta il tema della Madre, domandandosi cosa ne resti di lei al tempo della sparizione della sua rappresentazione patriarcale. Rigettando ogni nostalgia nei confronti dell’immagine “della madre del sacrificio e dell’abnegazione” imposta dalle leggi del padre-padrone, Recalcati concentra la sua analisi sull’attuale condizione femminile, non più appiattita sulla maternità, ma esposta a una tormentata integrazione tra l’essere donna e il ruolo di madre. Oggi infatti le donne lavorano, hanno raggiunto la libertà sessuale, non si propongono più quali “madri-coccodrillo” che divorano il loro frutto, ma “quali madri-narcise” che spesso vivono i figli come un ostacolo alla propria realizzazione sociale. Inoltre, in un’ipermodernità in cui il coito non è più necessario alla fecondazione, il sesso si allontana dalla natura per consegnarsi alla scienza: e la maternità da destino si trasforma in progetto, producendo una filiazione emancipata dalla dimensione naturalistica della famiglia. Una metamorfosi che impone una correzione di quelle letture preconcette della funzione materna che assegnavano alla madre il compito necessario ed esclusivo della cura del figlio o, all’opposto, uno spazio caotico e prelinguistico che soltanto l’intervento paterno poteva regolare.
Prestandosi il soggetto al cinema, proponiamo tre film disponibili sulla piattaforma Netflix, che spaziano tra Paesi e culture, tra epoche ed estetiche, documentando le variazioni di un istinto alla maternità messo in crisi dalla società occidentale emancipata. Con la cautela che un tabù impone.
Mother, film giapponese del 2020 di Tatsushi Omori, regista della nuova vague nipponica, presenta una madre che ha abdicato al proprio ruolo educativo, o meglio, non lo considera necessario per i suoi figli né per se stessa. La donna, cresciuta in una tradizionale famiglia piccolo-borghese, viene mostrata con crudezza nelle fasi sempre più estreme del rifiuto del suo ambiente, al quale preferisce il degrado di una vita da sbandata, vittima di alcool, delinquenza, profittatori. Un figlio primogenito e poi una bambina, entrambi senza padri, la seguono silenziosi e attoniti nella sua esistenza raminga, più come compagni di disavventure che come figli, privati di qualsiasi forma di educazione, genitoriale e scolastica. Mai, neppure al compimento dell’atto più estremo, la madre si pone dubbi sul proprio sciagurato comportamento, mai, nemmeno quando le conseguenze rovinano la vita del figlio e risparmiano la sua, si pente della propria nefasta influenza. Immagineremmo da parte dei figli ribellione e odio, invece no: obbedienza e amore, incondizionati a dispetto di tutto. Forse perché mai questa madre, protagonista ed egoista, sceglie di non far nascere o di abbandonare i suoi figli, nonostante le pressioni e le lusinghe della famiglia e della società.
Invisible, pellicola argentina datata 2017 del regista emergente Paolo Georgelli, già in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, propone un tema di attualità, avendo il paese sudamericano approvato di recente la legge sull’aborto. Nel film invece la vicenda è condizionata dal divieto ancora vigente all’interruzione di gravidanza, con cui si scontra la giovane protagonista quando scopre di essere incinta. Una ragazza di diciassette anni, come il titolo suggerisce “invisibile” agli occhi degli altri, siano la madre, l’amante, i compagni di scuola, i partner occasionali. Non bella, volutamente scialba, all’apparenza emotivamente indifferente ad ogni persona accanto a lei e ad ogni avvenimento le capiti, si direbbe condannata a una vita grigia e solitaria. Salvo la svolta, proprio nel finale, quando la decisione di non rinunciare alla maternità appare come il modo di manifestare la sua presenza al mondo, gradita o sgradita che sia. E di sentire finalmente su di sé lo sguardo di una creatura: la sua.
Si torna a una concezione tradizionale della figura materna nel film georgiano del 2017 My Happy Family, firmato dalla giovane coppia di registi Nana Ekvtimishvili e Simon Gross. In una società ancora fortemente patriarcale (che in realtà sono le donne a governare) Manana è una donna di mezza età che ha compiuto il suo ciclo biologico di figlia, moglie, madre e si appresta ad entrare nel ruolo di nonna. Agli anni che la attendono, scontato perno di una famiglia numerosa e problematica, la protagonista sceglie di sottrarsi per andare a vivere da sola, in un appartamento in affitto che il suo lavoro di insegnante le consente. Nella scarna semplicità della nuova casa, solo all’apparenza squallida, finalmente silenziosa quando non abitata dalla musica di Mozart, arredata appena da libri e fiori, la sua femminilità spenta rifiorisce, per bastare soltanto a se stessa. Inutile spiegare alla famiglia, preoccupata dal disonore sociale più che affranta dall’assenza di Manana, i motivi di una scelta che poche donne a quell’età e in quel contesto avrebbero il coraggio di compiere. Mentre allo spettatore appare chiaro come la ritrovata individualità della protagonista non significhi affatto abdicare al proprio ruolo di madre, al contrario governarlo senza esserne sopraffatta.