Il disturbo borderline
Paolo Migone affronta un tema importante e dibattuto, che da decenni interessa gli psicoterapeuti: ripercorre gli aspetti descrittivi, storici, psicodinamici e terapeutici del disturbo borderline, in un excursus che arriva fino alle ricerche più recenti.
La lezione prende le mosse dalla nascita della parola “borderline”, originariamente aggettivo, diventata nel tempo sostantivo secondo alcune classificazioni diagnostiche. Se alla metà del Novecento il disturbo, associato alla schizofrenia (e per questo si parlava di borderline schizophrenia, in cui borderline era un aggettivo che significava “al bordo della schizofrenia”), collocava questi pazienti gravi in una terra di mezzo tra nevrosi e psicosi ma vicini alla psicosi, la valutazione cambiò radicalmente con Robert Spitzer. Lo psichiatra americano, a capo della task force incaricata di redigere il DSM-III del 1980, elencò una serie di criteri diagnostici dai quali emergeva un nuovo significato del termine “borderline”. Il paziente che verrà inizialmente definito come caratterizzato da una unstable personality (personalità instabile) sarà descritto non più come vicino alla schizofrenia bensì come impulsivo, arrabbiato, a volte molto depresso. Quindi con la nuova diagnosi potremmo dire che il paziente borderline non si colloca più vicino alla schizofrenia ma all’altra delle due psicosi maggiori, la psicosi maniaco-depressiva, oggi chiamata “disturbo bipolare”. Questa tendenza a dare priorità ai disturbi dell’umore peraltro caratterizzerà tutta l’impostazione del DSM-III.
La storia del disturbo borderline nel susseguirsi dei vari DSM è ripercorsa da Migone soffermandosi in particolare sul DSM-5, la cui sezione sui disturbi di personalità venne totalmente rinnovata su basi dimensionali e non più categoriali, ma che la stessa American Psychiatric Association decise all’ultimo momento di abbandonare giudicandola troppo complessa per il clinico e di collocarla nella Sezione III del manuale
Migone elenca i nove criteri diagnostici del disturbo borderline del DSM-IV (e quindi del DSM-5), sottolineandone gli aspetti problematici per quanto riguarda la validità di costrutto, tanto è vero che fu presa in considerazione anche la possibilità di eliminarlo dal manuale.
Nella parte storica, vengono passate brevemente in rassegna le numerose definizioni del disturbo borderline date già a partire dai primi decenni del Novecento, per mostrare quanti ricercatori, anche e soprattutto di area psicoanalitica, hanno lavorato attorno a questo quadro clinico.
La diagnosi secondo i DSM
Dei cinque DSM (cioè le varie edizioni del manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association) il corso accenna inizialmente al primo e al secondo rispettivamente del 1952 e del 1968 – privi di criteri diagnostici, quindi di scarsa importanza – focalizzandosi sulla rivoluzione del terzo, il DSM-III del 1980, che si è imposto superando come importanza l’ICD (ovvero l’International Classification of Diseases) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Il DSM-5 ha seguito le caratteristiche del DSM-III, introdotto in anteprima per l’Italia proprio da Paolo Migone sulle pagine della rivista “Psicoterapia e Scienze Umane” (dove ha presentato anche i successivi DSM e i PDM, cioè le edizioni del Manuale Diagnostico Psicodinamico). Il DSM-III è stato il primo ad adottare un criterio non teorico ma descrittivo, che consiste nel descrivere i sintomi come li vede il clinico: così facendo si cercava di superare lo scoglio delle diverse teorie che impediva ai clinici di trovare un accordo, e anche di salvare la psichiatria dalla crisi dell’attendibilità delle diagnosi. Infatti risultava, ad esempio, che vi fossero molte più diagnosi di schizofrenia negli Stati Uniti che in Europa: è stato possibile dimostrare che non si trattasse di un dato epidemiologico ma dovuto a diversi criteri per fare diagnosi.
Migone mette poi in luce alcune dicotomie dei DSM (politetico/monotetico, validità/attendibilità, e categorie/dimensioni), e discute il sistema multiassiale, purtroppo eliminato dal DSM-5. Vi era l’aspettativa che il DSM-5 riuscisse a superare la crisi dei DSM, però si può dire che il tentativo di raggiungere non solo l’attendibilità ma anche la validità sia fallito, e la comorbilità si è rivelata il tallone di Achille dei DSM. Per risolvere questa crisi il DSM-5 ha introdotto alcuni aspetti dimensionali e ha richiesto che in certe diagnosi alcuni criteri diagnostici fossero sempre presenti.
È stato poi formulato un nuovo modello dimensionale per i disturbi di personalità, alla fine escluso perché troppo complesso e perché si temeva potesse incidere sulle vendite, pertanto non si poté fare altro che reintrodurre tutte le diagnosi di personalità del DSM-IV, con i relativi problemi di validità.
Altre novità del DSM-5 sono l’introduzione del concetto dimensionale di “spettro” per vari disturbi e l’abbassamento delle soglie diagnostiche, che implica un aumento di diagnosi con un conseguente maggiore uso di farmaci, a vantaggio delle case farmaceutiche. Si è anche formato un movimento internazionale di boicottaggio del DSM-5, al quale hanno partecipato anche i capi delle task force dei due precedenti DSM.
La molteplicità dei modelli in psicoterapia
In psicoterapia esistono molti approcci, a volte addirittura opposti, per affrontare un medesimo disturbo. Come superare tale impasse? Una soluzione potrebbe essere applicare il metodo sperimentale per verificare l’efficacia delle diverse tecniche, ma è difficile attuare in psicoterapia gli “studi randomizzati controllati” (randomized controlled trials [RCT]) così come si fa con i farmaci (“doppio cieco”, uso del placebo, etc.)
Ma perché esistono tante scuole psicoterapeutiche? Migone sottolinea come occorra una prospettiva storica. Ad esempio, alcune scuole sono sorte come reazione ad altre, oppure per specifiche diagnosi o fasce di età. Inoltre certe scuole sopravvivono per semplice ignoranza degli altri approcci, o per tradizione storica, di fedeltà ai “padri fondatori”, quindi per motivi affettivi, o per quella che Migone chiama “insicurezza di identità”. Vi sono poi scuole che usano terminologie diverse ma dietro alle quali vi sono gli stessi concetti, e vi è una resistenza a prenderne atto.
Esiste un movimento per l’integrazione in psicoterapia, la Society for the Exploration of Psychotherapy Integration (SEPI), di cui esiste anche un gruppo italiano che Migone anni fa ha contribuito a fondare, che lavora in questo senso. La SEPI non mira all’eclettismo (che è clinico), ma all’integrazione teorica dei diversi modelli.
È importante conoscere modelli diversi, perché il paziente potrebbe sentirsi compreso meglio da un approccio piuttosto che da un altro. Non solo: idealmente lo psicoterapeuta avrebbe dovuto fare esperienza personale di certe sofferenze psicologiche perché è in questo modo che riesce a comprendere il paziente, e quest’ultimo a sentirsi compreso.
Lo psicoterapeuta quindi dovrebbe essere una persona che non si richiude nella “parrocchia” della propria scuola, altrimenti tenderà a vedere in tutti i suoi pazienti il modello che ha imparato.
La proposta che fa Migone è ritenere legittimi i diversi modelli psicoterapeutici in quanto guardano il paziente da una loro prospettiva, in una ricerca infinita. Non c’è un solo modo per conoscere “la verità”, che è inconoscibile. Occorre lasciar aperto il campo della ricerca in psicoterapia, affinché continuino a sussistere modi diversi di conoscere il paziente, altrimenti si arresterebbe il processo di conoscenza.
Inconscio psicoanalitico e cognitivo
L’inconscio psicoanalitico e l’inconscio cognitivo non sono due “fedi” rivali, ma due tipi di processi inconsci studiati maggiormente da autori della tradizione psicoanalitica il primo e di quella cognitiva il secondo. E si è capito che non esiste un inconscio, ma molti inconsci, e sia gli psicoanalisti che i cognitivisti ne sono ben consapevoli.
L’inconscio psicoanalitico è “dinamico”, nel senso che certi contenuti mentali possono passare dallo stato conscio a quello inconscio e viceversa. Un trauma ad esempio può essere dimenticato perché doloroso, ma in certe condizioni favorevoli tornare alla memoria. La psicoanalisi postula che il prezzo pagato per questa rimozione può essere un sintomo (ad esempio una depressione), che può scomparire se si riesce a ricordare ed elaborare quel trauma che era stato rimosso.
Un’altra caratteristica dell’inconscio psicoanalitico è quella di essere, come una volta lo definì Freud, un “calderone ribollente” di impulsi e desideri. Questo aspetto lo rende molto diverso dall’inconscio cognitivo, dove si parla invece di “cognizioni”, di problem solving, e di “processi” più che di “contenuti”. Il terapeuta cognitivo concepisce l’inconscio come rappresentazioni mentali implicite o tacite, cioè non consapevoli, le quali, se disfunzionali, vanno modificate, cercando di renderle consapevoli.
Si suol dire che il cognitivismo sia l’erede del comportamentismo, nel senso che si è passati dal semplice modello stimolo-risposta (S-R) alla concezione di una “mediazione cognitiva” che si infrappone tra S e R, cioè a un modello più complesso. In realtà i due padri storici della terapia cognitiva, Aaron Beck e Albert Ellis, provenivano dalla psicoanalisi, e volevano proporre un trattamento più semplice e più breve di quello psicoanalitico.
Per inconscio cognitivo si intende quella parte del funzionamento mentale che è inconscia non perché è stata rimossa, ma perché non è mai stata conosciuta, e quindi non potrà mai essere ricordata, né è utile che lo sia. Si può anche dire che l’inconscio cognitivo sia quella parte di noi “che non si può mai ricordare né dimenticare”, ed è una parte importantissima per la vita quotidiana perché regola i movimenti automatici (andare in bicicletta, camminare, ecc.). Ma riguarda anche i rapporti interpersonali e gli stili di attaccamento.